Una riflessione sulla caduta del Muro.

 

In questi giorni si celebra il ventennale della caduta del Muro di Berlino. Un anno straordinario, che mi ha lasciato il ricordo emozionante del grande Mstislav Leopol’dovič Rostropovič che suonava il violoncello addossato alle rovine, di tanti uomini e donne che festosamente danzavano e cantavano alla fine di un’epoca di divisioni. Ma mi torna anche il ricordo amaro della rivoluzione rumena, che versò fiumi di sangue nel Natale del 1989, e di Piazza Tien A Men in Cina, troppo in fretta dimenticata – in nome dell’economia e della politica – da tutti gli Stati del mondo. Mi sono tornati in mano questi versi che scrissi nel 1986, quando tutti pensavano – e ci credevano realmente – all’eternità del Muro, totem immobile a cui furono immolate tante vittime dell’idiozia umana. In quegli anni, il Muro veniva superato, abbattuto, dagli Intellettuali di tutta la Terra, che riuscivano comunque a far dialogare le due parte del mondo diviso: erano gli anni formidabili in cui organizzavo mostre di Arte Postale dove esponevo opere di Artisti dell’Est europeo che riuscivano – nei modi più impensabili – a superare la cortina di ferro prendendosi gioco dei potenti.  Oggi ben poco è rimasto di quell’epoca, se ancora oggi all’interno delle Democrazie occidentali si continua a parlare di censura alla satira politica, di controllo dell’informazione, di giustizia iniqua. Nuovi muri in cui è difficile fare breccia, se non alzando la voce e ricevendo querele.

L’eternità del Muro

Assorbiva radiazioni e pioggia,

graffiato, senza radici lungo i fiumi,

come un laccio a chiudere il sanguinare del mondo.

Conosceva l’uomo e il mutare delle stagioni,

lavorato dall’erosione e dal gelo.

Ricordava l’Ecce Homo. Stava lì inutile,

come un moribondo in croce;

chiedendosi se l’eternità è un dono agli dei

o una presenza del Dio per chi servì le sue creature.

(20 aprile 1986) Paolo Castagno